D’ulivo

Stavo attraversando la strada quando, dall’altra parte, li ho visti. Un uomo sulla cinquantina in tuta grigio chiara, con le scarpe da ginnastica bianche, slanciato, alto e più giovane di quanto i suoi capelli grigi, folti e tagliati alla moda rivelavano, sosteneva tenendolo a braccetto un signore anziano. Questi era così storto, ricurvo e nodoso che sembrava stesse cercando qualcosa per terra. Il dosso artritico della sua colonna vertebrale lo schiacciava, piegandolo e facendolo ruotare un po’ verso destra, come un tronco di un ulivo secolare. A sostenere dall’altra parte quell’avvitamento, un bastone nero. Non so definire bene quello che ho provato, ma continuo a pensarci.

Da una parte, un sentimento di pena e di pietà per quell’uomo storto, il cui corpo rattrappito da anni di chissà quale lavoro lo ha tradito, imprigionandolo in una postura innaturale e dolorosa. Dall’altra, un inspiegabile senso di soggezione e di vergogna per essere esattamente all’opposto della sua situazione. Cammino veloce e li supero, a passo leggero, sperando di non farmi notare, pregando che lui non faccia caso a me, ben sapendo che di me potrà solo vedere le scarpe. Quasi scusandomi per esserci, per avere una schiena dritta, per poter fare le scale senza ansimare, per poter danzare, ballare, piegarmi e ripiegarmi, anche all’indietro, che a fare cambré ancora ci riesco (sempre fatto male, non esattamente come la Abbagnato, ecco). E poi sdraiarmi, saltare e poi tornare dritta come una calla, senza che nessuno di questi movimenti mi dia il minimo fastidio (a parte il cambré).

Però poi, quasi istantaneamente, questo senso di vergogna si è trasformato in qualcosa di più elevato, un senso di rispetto nei confronti di quell’uomo, della sua schiena, e di un’intera generazione che rappresentano. Quella che ha fatto di Verona, del Nordest e forse dell’Italia quello che sono. Quella generazione che sapeva accontentarsi, sapeva risparmiare e quel poco che aveva non solo bastava, ma avanzava, non per loro ma per i figli, per farli studiare, per far sì che avessero una vita migliore. Che non era abituata a comprare qualcosa ogni qualvolta semplicemente lo si desiderasse, come noi oggi facciamo distrattamente sul divano, in attesa del semaforo verde o nella pausa caffè in ufficio. Come se a quella schiena dovessi dire grazie e prendere atto che la forza di quella schiena curva io non ce l’ho.

Quel vecchio albero d’ulivo, avvitato su sé stesso, racconta una storia che noi, piccole fragili calle, destinate a essere cancellate dalla prima gelata, non sappiamo nemmeno immaginare.

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