Intervista ad Alessandro Giannì, direttore Campagne Greenpeace

(11/2015 – 4Uik!)

Anna Martellato - il Santuario dei cetacei - Greenpeace

“Il Santuario dei cetacei? Noi lo chiamiamo “il Santuario di carta”. Perché sulla carta è nato, e sulla carta è rimasto. Provi a chiedere a qualunque autorità se mai sono state fatte delle multe, delle sanzioni a qualcuno perché lì c’è un santuario dei cetacei: nessuno troverà risposta affermativa”.

Alessandro Giannì è il Direttore delle Campagne di Greenpeace Italia. L’uscita il 3 dicembre nelle sale del film di Ron Howard Heart of Sea – alle origini di Moby Dick è l’occasione per fare il punto della situazione, riaccendendo i riflettori su questi enormi, misteriosi cetacei che popolano le profondità dei nostri oceani. E dei nostri mari.
Già, perché Greenpeace non è solo attivisti anti-caccia alle balene, che sprezzanti del pericolo tallonano con i loro gommoni le baleniere giapponesi. Greenpeace è anche salvaguardia e protezione delle balene di “casa nostra”, le balenottere e i capodogli del Mediterraneo “nostrum”, ossia nei mari italiani, dove in tutto sono presenti 12 specie di cetacei (in tutto il Mediterraneo invece gli avvistamenti, anche rari, hanno portato al censimento a 21 specie).
Quando si parla di cetacei l’attenzione si sposta direttamente in quell’area con peculiarità biologiche tali da essere individuata nel 1991 come area naturale marina protetta di interesse internazionale, che occupa una superficie di circa 90mila km2 di mare tra Liguria, Sardegna settentrionale e Toscana, abbracciando la Corsica e toccando la Costa Azzurra. Una superficie protetta che somiglia a un trapezio rovesciato in cui c’è una maggior concentrazione di cetacei, nata grazie un accordo internazionale tra Italia, Francia e Principato di Monaco, battezzata Santuario Pelagos, meglio conosciuto come “Santuario dei cetacei”.
Ancora oggi, però, quel Santuario rimane solo sulla carta. A denunciare l’impasse è Greenpeace: “È stato un accordo molto importante. Greenpeace a lungo in quell’area ha contrastato attività pericolose, facendo un censimento che ha portato alla decisione di istituire il santuario”.

Era così disastrosa la situazione allora?

Se lo era? Il primo censimento agli inizi degli anni ’90 portò a individuare l’area come “importante” in particolare per la balenottera comune (ma anche per grampo, zifio…). Successivamente, non è stato più raccolto nessun dato fino al 2009: è in quell’occasione che abbiamo constatato una forte diminuzione di balenottere, al punto di non poter nemmeno avere rilevanza statistica. Un disastro, con addirittura di balene a perdere, con fattori di pressione e la presenza di traghetti veloci: facevano un rumore assurdo e passavano in aree importanti.

Oggi invece?

I traghetti veloci non sono praticamente più utilizzati, per motivi economici. Ma in compenso è stato costruito il rigassificatore industriale Olt di Livorno (controllato da Iren ed E.On, ndr) a dispetto di ogni legge, ogni norma, ogni logica, che i contribuenti italiani pagano milioni di euro l’anno, e tra le altre cose è inutile perché non sta nemmeno funzionando (il “fattore di garanzia”: una tariffa sicura di pochi centesimi all’anno per contribuente inserita nella bolletta del gas, anche in caso di inattività, che per il 2013 e 2014 ammontava a 45 milioni; quest’anno, come ha riportato Il Fatto, 83 milioni, ndr). Abbiamo denunciato questo e i falsi conclamati nel processo di autorizzazione in un documento ufficiale on line. Questo rigassificatore off shore, ossia in alto mare, è a circa dodici miglia dalla costa toscana, tra Pisa e Livorno. Attenzione, il nostro rapporto non rappresenta una critica ai rigassificatori in quanto tali, ma a uno specifico progetto per le caratteristiche che questo presenta e per la localizzazione nel Santuario dei Cetacei. Inoltre, si tratta di un pericoloso precedente per la creazione di siti industriali in mare, peraltro in un’area che è stata dedicata, con accordo internazionale, alla tutela dell’ambiente in generale e dei cetacei in particolare.

Perché non si è più fatto il punto sul Santuario dei cetacei?

Nel 2011 Liguria e Toscana ci avevano promesso un tavolo tecnico per parlare del Santuario. Dopo aver segnalato una serie di rischi tra cui il traffico navale, accadde prima il caso dei 198 fusti tossici persi in mare al largo di Gorgona dall’Eurocargo Venezia il 17 dicembre 2011, 71 dei quali mai recuperati. E poi, nemmeno un mese dopo, il 13 gennaio 2012, ci fu la Costa Concordia. Da allora, nulla è più stato fatto. Né la Liguria, né la Toscana hanno più voluto parlare con noi: con loro si dovevano definire le priorità, dove e come si doveva lavorare.

Ci sono norme particolari per chi attraversa la zona del Santuario dei cetacei?

No. Ci sono le stesse norme che vigono al di fuori del Santuario. E allora che Santuario è? Non ha molta logica. Greenpeace ha lavorato per sostenere l’attività dei colleghi sulla caccia marina nell’Oceano Antartico, ma anche sulla tutela delle balene a casa nostra, che è doverosa.

Ma esiste una “caccia alle balene” nel Mediterraneo?

Parlare di caccia alle balene è improprio: si tratta di catture “accidentali”, non è un atto intenzionale. Negli anni ’90, nelle reti spadare cadevano anche delfini e capodogli: in Italia ci sono circa 900 balenottere, allora una ventina finiva nelle reti. Capirà che 20 su mille anche se sembra poco, non lo è. Era peggio che nei mari antartici, dove le balene e i capodogli presenti sono molti, molti di più, alcune migliaia. Oggi l’attività con quel tipo di reti usate negli anni ’90, dichiarata illegale, è per fortuna sporadica.

A proposito, l’emergenza in Antartide è finita? Battaglia vinta?

Non del tutto. Le caccia-baleniere Giapponesi si sono fermate dopo lo tsunami e Fukushima, quindi è qualche anno che la caccia alle balene si è fermata. Ma il governo giapponese ha annunciato l’intenzione di riprendere. La cosa è semplicemente ridicola.

In che senso?

Nel senso che le caccia-baleniere erano state spacciate come ricerche scientifiche, quando non lo erano. Poi la caccia si è fermata l’anno scorso dopo una “pronuncia” della Corte di Giustizia Internazionale che ha detto chiaramente che non si trattava di una attività scientifica (l’unica in teoria permessa). Quello che è successo dopo lo tsunami è che per la prima volta sono diminuiti i volumi di carne di balena immagazzinata: per il semplice fatto che alcuni dei depositi sono stati spazzati via dall’onda. Due nostri attivisti, nel 2008, hanno filmato e mostrato pubblicamente che l’equipaggio della Nisshin Maru sbarcava la carne di balena affumicata, attività vietata dallo stesso governo. E il governo giapponese cosa ha fatto, una volta che lo abbiamo mostrato? Ha denunciato e arrestato noi.

Cosa servirebbe per fermare la macchina prima che si rimetta in moto?

Stiamo facendo un’attività informativa rivolta alla stessa popolazione giapponese, quindi su terra, di quanto è avvenuto e potrebbe di nuovo accadere. Ma, più in generale, servirebbe un’autorità, un organismo internazionale che tuteli le balene. Oggi, nel 2015, è anacronistico parlare di quote: quello che minaccia le balene non è solo lo sfizio di pochi che si cibano di carne di balena, ma l’inquinamento, la plastica, le reti.

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