Storia sull’acqua

E smise di piovere.
Così, semplicemente: smise di piovere.
Non per questo c’era sempre il sole. C’era anche la nebbia, c’erano le nuvole, a volte nuvoloni grigi e minacciosi di pioggia. Il cielo si incupiva, diventava di piombo, soffiava il vento, ma dalle nuvole nemmeno una goccia d’acqua.
Sembrava che il cielo si fosse dimenticato che alle piante e agli animali e all’uomo l’acqua serviva per vivere e che avesse deciso di mandare tutto all’aria.

E intanto i fiumi diventavano torrenti e i torrenti diventavano rigagnoli.
I laghi diventavano pozze e le pozze diventavano conche melmose.
E gli uomini attraversando i ponti guardavano i segni sull’argine lasciati piene di un tempo nemmeno tanto distante, ma che sembrava lontanissimo: “Ma davvero l’acqua era arrivata fin lassù?”, chiedevano i bambini con gli occhi sgranati e anche i vecchi si chiedevano la stessa cosa, stringendosi nelle spalle e domandandosi se davvero era stato reale oppure se era un ricordo sbagliato, quello dell’acqua.

Dov’era finita quell’abbondanza?
Persa per sempre, lasciata andare nell’indifferenza, considerata scontata. Non salvata ma sottovalutata, perché nessuno fino ad allora ne aveva avuto cura né aveva avuto timore di perderla.

Il cielo però giocava a imitare gli uomini, che per anni si erano lanciati in una corsa sfrenata per produrre e consumare, sempre di più, non per necessità ma per avidità.
Sprecando acqua senza curarsi del come, senza mai pensare a quanto fosse preziosa, sfruttando le zolle senza rispetto. Trattamenti chimici, diserbanti, concimazioni. La campagna era un laboratorio di produzione intensiva a tutte le stagioni. La terra non riposava mai. Progresso, era chiamato.
E i camini per scaldare le case bruciavano l’aria e intasavano il cielo. E le macchine inzozzavano le strade. E le polveri entravano ovunque nelle case, nelle narici si depositavano dappertutto, anche sulle foglie dell’alloro che non cadono neanche in inverno.
E i trifogli morivano avvelenati dai pesticidi, che non sparivano nel nulla, ma scivolavano giù nella pancia della terra, nelle falde di acqua. E nei campi di grano non crescevano più i fiordaliso. E le api vibravano sempre meno. E il cemento prendeva il posto dei prati.
Nella corsa sfrenata dell’ultraeconomia l’uomo si era dimenticato che della terra lui non era padrone, ma ne era figlio: ne faceva solo parte. E si era dimenticato anche che la terra e il cielo sono una cosa sola e non si possono pensare separati. E che in mezzo a loro c’è l’uomo, ed è lui quello capace di unirli.
E allora il cielo, non per dargli una lezione ma per dargli un’indicazione, decise di dimenticarsi a sua volta di lui.
Prima o poi dovrà piovere”, dicevano i fatalisti.
Ci sono sempre state nella storia fasi di siccità, è normale”, liquidavano gli scettici.
Intanto però il tempo passava e l’acqua non arrivava.

Così, mentre i prati ingiallivano e gli alberi seccavano, alcuni uomini iniziarono a vedere l’indicazione.
Scelsero di ascoltare quella parte di loro che non aveva a che fare con statistiche, con casistiche, con curve temporali e con gli esperti dei talk show.
Scelsero un altro paradigma, anche se non era proprio semplice: il paradigma della cura e del rispetto.

All’inizio furono piccole cose, poco per volta. Ognuno faceva la propria parte con semplici gesti che nessuno vedeva, che nessuno postava, che nessuno lodava.

Gesti resilienti e sussurrati appena che non servivano per guadagnare soldi o accumulare like o followers, ma di questi gesti il cielo se n’era accorto.

Qualcuno iniziò a coltivare in modo diverso anche se voleva dire spenderli in nuovi metodi di irrigazione, i soldi, e non guadagnarli. Anche questo il cielo lo vedeva.

La scienza e la tecnologia si misero a servizio della terra, e non viceversa.
Iniziò una progressione, che era diversa dal progresso.
E i burocrati iniziarono a sburocratizzate e gli amministratori a supportare chi aveva accolto questi metodi nuovi e più intelligenti. E questo il cielo l’aveva notato.

Si iniziò a costruire meno palazzine e ad ampliare i parchi. Si limitarono le coltivazioni e si lasciarono crescere prati selvaggi. E spuntarono di nuovo i fiordaliso. E ritornarono le api.
La gente poi iniziò anche ad accumulare meno e a comprare meglio, imparò ad essere meno capricciosa. Anche questo al cielo piaceva.

E si aveva più cura dell’acqua rimasta: non la si vedeva più come qualcosa che c’è sempre stata, che c’è e che ci sarà, ma come la cosa più buona del mondo da preservare, in quantità e in qualità.

Perché si era capito che tutto partiva sempre da lì, dall’uomo, punto primo e punto ultimo, anello tra la terra e il cielo.

E le cose iniziarono ad aggiustarsi piano piano, giorno dopo giorno, prima nel piccolo, poi nel grande.
Il cielo fu così felice che i nuovi uomini e le nuove donne avessero capito quello che voleva dire loro, che pianse di gioia.

E l’acqua tornò.

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