L’elefante in cantina
“Alessio, vai tu a prendere il vino?”
Il cielo sopra Stoccarda rivelava migliaia di stelle, in quella sera limpida d’autunno in cui Alessio e Isabelle avrebbero cucinato per i loro ospiti.
C’era qualcosa di speciale da festeggiare: il trasloco di lei nel Nido, la casa costruita da Alessio anni prima.
Era anche comparsa in alcune riviste di architettura: questo grazie a Isabelle e alla sua influenza. Lei, che a quaranta tre anni era già socia in uno degli studi di avvocati più prestigiosi. Lei: la sua nuova compagna. Ufficiale, dopo anni vissuti volontariamente nell’ombra.
“Certo, Belle” la chiamava così, che in italiano e in francese vuol dire la stessa cosa. E lo era davvero, bella. Tuttavia non era l’aggettivo che più si confaceva a una donna come lei. Ambiziosa, sicura di sé, indipendente e con un temperamento manipolatorio nei confronti di chiunque avesse avuto anche solo l’idea di ostacolare i suoi piani, dopo due mesi nel Nido Isabelle sembrava essersi ambientata senza alcun problema.
Aveva fatto sostituire tutto il mobilio della precedente inquilina, Mia, l’ex fidanzata di Alessio. Aveva cambiato la tappezzeria e trasformato l’ambiente, prima gradevole, in una succursale del suo studio. Dominava il nero. Non che a lui dispiacesse, ma a volte gli sembrava ci fosse qualcosa di troppo rigido, nei suoi gusti.
Il Nido, concepito su una struttura lignea che ne faceva una contemporanea palafitta, aveva anche quella che loro chiamavano “cantina”: la pancia del Nido, la parte più bassa, da cui si accedeva tramite una breve scala che esaltava i materiali naturali come legno e pietra.
Una moderna cantina termoregolata, pensata per cullare i vini che lui amava collezionare. Da buon italiano, più della metà almeno proveniva dal suo paese d’origine, anche se Isabelle stava silenziosamente allargando la zona dedicata ai vini francesi, i suoi preferiti: aveva sempre snobbato i vini italiani. Proprio il giorno prima alcune bottiglie di Crinaia erano state accantonate per terra come scarpe vecchie, per fare spazio a nuove bottiglie di Cabernet.
‘Sì, Barolo: perché no’, pensava tra sé e sé Alessio mentre scendeva le scale, che facevano una curvatura a chiocciola prima di imboccare la cantina.
Accese la luce soffusa che dal pavimento e dal soffitto permeava tutto lo spazio accarezzando le pareti. Sfiorò l’interruttore touch screen sulla parete alla sua sinistra, fece l’ultimo gradino, alzò lo sguardo in direzione della sezione dei vini del Nord Italia e si bloccò.
Davanti a lui, che occupava tutto lo spazio della cantina, c’era un elefante.
Un elefante vero. Grigio. Enorme. Con la proboscide.
I suoi fianchi sfioravano pericolosamente i Soave da una parte e i Bordeaux dall’altra mentre la coda con tutta probabilità stava spazzolando gli Champagne. La testa toccava il soffitto.
L’elefante era fermo, immobile. E lo fissava.
Ogni minimo movimento avrebbe provocato una catastrofe. Ma soprattutto, come ci era arrivato?
Questi pensieri attraversarono la mente di Alessio tutti insieme, accavallandosi uno sull’altro senza dargli il tempo di farsi la domanda più ovvia: cosa ci faceva un elefante lì?
Gli si piegarono le gambe, si accasciò molle sul primo scalino aggrappandosi al muro, prima di permettere all’istinto di fare la sola cosa buona che in questi casi è necessario fare: scappare.
Si precipitò senza riuscire a emettere un suono in cucina. Elegantissima e impeccabile come sempre, Isabelle, in tubino nero, capelli raccolti e collier Swarovsky stava condendo un’insalata di spinacino novello, mele verdi a fettine sottili, noci pecan e fichi preparata dalla chef di fiducia, che aveva consegnato tutto il menù nel pomeriggio. Isabelle non aveva tempo né traeva soddisfazione nel cucinare e considerava il rimestare l’insalata un contributo sufficiente.
“Il vino?”, sbottò vedendolo a mani vuote.
“Lascia perdere il vino Isabelle, abbiamo un problema in cantina. Un problema grosso!” disse Alessio scosso, arcuando le dita delle mani come se stesse trattenendo con tutta la sua forza un pallone invisibile, senza trovare le parole giuste per spiegarle quello che aveva appena visto.
“Che tipo di problema”, disse Isabelle senza porla come una vera domanda, impassibile davanti alla palese agitazione del compagno.
“Un elefante”, disse a bassa voce Alessio.
“Un cosa?”, chiese Isabelle sgranando gli occhi.
“C’è un elefante in cantina.”
“Te la sei già bevuta tutta, la bottiglia?”, gli chiese con una calma sarcastica, ritornando ad assumere quella sua espressione imperturbabile.
“No, Isabelle! Dico sul serio”, disse, ma a bassa voce, come se i rumori avessero potuto spaventare il pachiderma.
“Sei sudato, dovrai farti una doccia. Non vorrai che i nostri ospiti ti trovino in questo stato”, sentenziò Isabelle guardandolo dall’alto in basso, incrociando le braccia. Era più alta di lui di una spanna.
“Vado a prendere io il vino”, disse infine sbuffando, superandolo e scendendo le scale.
Ricomparve pochi secondi dopo con una delle sue bottiglie in mano. Un vino alsaziano.
“Potevi dirlo che non avevi voglia di scendere”, appuntò irritata, posando senza troppa cura la bottiglia sulla penisola della cucina. Aveva fatto cambiare anche il piano. Le piaceva il marmo Marquisa.
“Non hai visto l’elefante?”
“Alessio, con questa storia è ora che la fai finita. Mi stai annoiando”. Annoiata. Lo era spesso da quando la loro relazione era diventata pubblica. Prima, invece, quando lei era l’altra era tutto diverso.
“Vuoi dire che non c’è l’elefante?”
“Un elefante in cantina, che assurdità. Nemmeno Laurent ha questa fantasia”, rispose Isabelle ridendogli in faccia, dandogli le spalle e continuando a condire la misticanza con olio, sale e succo di lime, per poi aprire il forno e punzecchiare con una forchetta l’arista che sfrigolava nella teglia. Anche quella, preparata dalla chef. Isabelle insisteva a tormentare il cibo che avrebbero poi servito, come a cancellare la mano di altri e imprimere la sua, concedendosi in questo modo senza l’ombra del minimo imbarazzo il permesso di mentire agli ospiti quando le avrebbero chiesto chi fosse l’artefice di quei piatti ricercati.
Laurent era loro figlio e aveva sette anni, quasi. Sei dei quali vissuti con un padre a metà. Il bambino era stato confinato dalla madre con la baby sitter nelle sue stanze a guardare qualche cartone animato e a giocare e, alle nove, cioè tra meno di mezz’ora, a dormire. Isabelle teneva molto al rispetto degli orari.
Laurent era letteralmente un piccolo miracolo: Isabelle non poteva avere figli, così quando iniziarono la loro relazione clandestina entrambi non fecero molta attenzione alle precauzioni. Un piccolo miracolo era anche la loro storia: Alessio era riuscito a mentire a Mia per anni e a tenere in piedi le due relazioni.
Certo, non sarebbe stato facile senza l’aiuto e la saggezza di Isabelle, che era al corrente di tutto e che non gli aveva mai chiesto di lasciare la fragile e instabile fidanzata per lei. Nemmeno una volta. Sembrava quasi non lo volesse, ora che ci ragionava. Ma quel pensiero, emerso da chissà dove come un guizzo, lo abbandonò all’istante. Senza la lucida gestione della storia da parte di Isabelle, senza i suoi consigli per mantenere la relazione con Mia evitando di instillare in lei alcun sospetto, e senza la minima pretesa da parte di Isabelle di averlo presente nella sua vita – se non quando era necessario per il bambino -, la cosa non sarebbe durata. Non così tanto tempo: più di sei anni.
Alessio la guardava. Guardava le sue spalle scolpite dal pilates, la sua schiena dritta e magnifica. Era una donna straordinaria. Ma non poteva crederle in merito all’elefante: era certo di non aver avuto un’allucinazione. L’elefante era vero.
Tornò in cantina. La luce era ancora accesa: Isabelle non la spegneva mai e toccava sempre a lui sistemare quello che lei tralasciava con noncuranza. Alessio infilò la testa oltre lo stipite che dava sulla cantina lentamente, aspettandosi di non trovare alcun animale e di dover dare ragione a Isabelle, come accadeva spesso.
Invece aveva ragione lui. Era ancora lì. L’elefante c’era. E occupava tutta la stanza.
“Isabelle!!”, gridò allora Alessio con quanto fiato aveva in gola, facendo uscire un lamento sgraziato e acuto, mentre il cuore iniziava a battere all’impazzata, forse per l’animale che lo guardava serafico o più verosimilmente per l’idea della pazzia, che si insinuava con più concretezza.
“Non verrò a vedere il tuo elefante”, gli rispose flemmatica dal piano di sopra. In quel momento, il campanello suonò: il primo dei cinque ospiti attesi era arrivato.
***
“Alessio… ma hai sentito quello che ti ho detto?”
Alessio sollevò lo sguardo dal piatto che a mala pena aveva toccato, incrociando il sorriso cordiale di Maurizio, architetto come lui: occhiali squadrati, montatura nera, pelle abbronzata tutto l’anno, gli aveva appena chiesto qualcosa che lui non aveva minimamente sentito. La cena stava proseguendo nel migliore dei modi con Isabelle sempre al centro dell’attenzione, a controbilanciare la distrazione di Alessio.
“Ah, non preoccupatevi”, intervenne Isabelle. “Alessio sta solo rimuginando sul suo elefante in cantina”. Alessio le lanciò un’occhiata fulminea.
“Che cosa?”, chiese con la sua solita voce allegra Kristine, che era sempre di buon umore e vestiva solo con colori accesi, versandosi dell’acqua e sporgendosi in direzione di Alessio: era arrivata con il suo nuovo amico, un uomo taciturno che dalla sua posizione Alessio non riusciva a vedere. “Un elefante?” chiese incredula e allo stesso tempo interessata, allargando ancora di più, per quanto possibile, gli occhi e il sorriso e accarezzandosi i capelli biondi, che portava sempre un po’ arruffati. Kristine adorava le storie fantastiche.
“Ma sì, un elefante in cantina, ci credereste mai? Quando me l’ha detto ero sollevata: pensate se ci fosse stato un ragno!”, incalzò Isabelle facendo sorridere la tavolata. Ad Alessio uscì più un ghigno che un sorriso, alla battuta della nuova compagna.
I commensali tacquero alcuni secondi, galleggiando in quella zona buia in cui era impossibile per chiunque capire se quel che era stato detto era una micidiale battuta, e avrebbero perciò dovuto continuare a ridere, oppure c’era sotto qualcos’altro. Per questo preferirono tutti tacere fino a quando Isabelle iniziò una nuova conversazione, senza fare altre domande sull’elefante alle quali comunque né lei, né Alessio, avevano voglia di rispondere.
“Curioso”, disse l’uomo avvicinandosi e cogliendolo di sorpresa. Era il nuovo amico di Kristine, il commensale più silenzioso della tavolata, che però sembrava aver osservato e ascoltato tutti. Soprattutto Alessio.
“Prego?”, gli chiese Alessio scostandosi dalla finestra. Si era isolato a sorseggiare un amaro mentre gli altri erano già rilassati e spensierati in salotto, in attesa che Isabelle scegliesse un vinile per accompagnare la serata alla sua naturale conclusione.
“L’elefante in cantina, intendo.”
L’uomo era alto e magro, con un lungo ciuffo di capelli grigi e il viso squadrato. Lo guardava con due occhi piccoli e nocciola.
“Oh, be’, è stata di sicuro un’allucinazione. Cos’altro poteva essere. Chiunque direbbe che vedere un pachiderma in una cantina è da pazzi”, disse Alessio cercando di non affrontare oltre l’argomento e sperando che l’uomo, di cui non ricordava il nome, lo lasciasse cadere.
“Invece non lo è. Forse l’elefante è lì per dirti qualcosa.”
La risposta del nuovo amico colse di sorpresa Alessio, che ne fu totalmente catturato. Ora aveva la sua massima attenzione.
“E per dirmi cosa?”, gli chiese guardandolo con speranza.
“Solo lui te lo può dire. A volte la nostra mente vede cose che, anche se non sono concrete, sono lì per farci capire qualcosa. La prossima volta che vedrai l’elefante, perché non glielo chiedi?”
***
Alessio attese immobile a letto fino a quando il respiro di Isabelle si fece più lento e profondo, prima di scendere in cantina. Scese dal letto senza fare il minimo rumore, infilò le ciabatte di velluto, scese le scale in pigiama e accese la luce. L’elefante era ancora lì.
Si guardarono.
“Cosa vuoi da me?”
L’elefante non rispose. Ma si mosse, dando una spallata ai vini del sud della Francia di Isabelle. Cinque o sei bottiglie caddero frantumandosi in una fragorosa esplosione di vetri resa ancora più rumorosa dal silenzio della notte, mentre sul pavimento si espandeva una macchia rosea.
Isabelle avrebbe fatto una sfuriata: tanto meglio, ora almeno gli avrebbe creduto e non l’avrebbe più ridicolizzato di fronte ai suoi amici.
“Perché sei qui?”
L’elefante non gli parlò, ma diede un colpo di coda agli champagne di Isabelle. Un altro rumore di vetri rotti, altro vino e schiuma sparsi sul pavimento con un rumore simile alla risacca di un’onda del mare.
“Cosa devi dirmi?”, e subito la proboscide fece cadere come birilli due rossi borgognone Gevrey-Chambertin.
E poi ancora, altre bottiglie: tutte nella parte della cantina occupata da lei, Isabelle. I suoi vini, invece, intatti. Intatti i Soave, intatti i Bardolino Chiaretto, intatto i Ripasso Solane, i Ventale, i Caleselle e i Bordenis.
L’elefante, che ora sembrava più piccolo e più agile, si muoveva nella direzione di due Bordeaux, un Margaux e un Pauillac, con l’intento di abbatterli.
Quello immobile, stavolta, era Alessio. Non aveva urlato, non era fuggito, non aveva chiamato Isabelle. Non aveva neanche provato a fermarlo. Perché a ogni bottiglia esplosa a terra, a ogni nuova pozza di vino, si sentiva più sollevato. Più rilassato.
Improvvisamente, tutto gli fu chiaro. Si allungò allora quel tanto che bastava per sganciare uno dei calici appesi alla mensola di legno vicino alla scala e afferrò, stando attento a non sporcarsi nel lago rosaceo che si stava formando sotto i suoi piedi, una bottiglia di Santico, l’Amarone della Cantina Santi, il suo preferito, per poi tornare al terzo scalino, sedercisi comodamente, stappare la bottiglia e versare nel calice un po’ del suo contenuto.
Un’altra, anzi due, tre e poi una quarta bottiglia di Châteauneuf-du-Pape caddero spargendo vetro e vino sul pavimento, schizzando macchioline amaranto sulla parete chiara, illuminata dalla luce calda che lui stesso aveva studiato. Una luce dorata come il prosecco e le sue bollicine che rendevano quella strage di vini qualcosa di catartico.
Decise che avrebbe parlato a Isabelle, l’indomani mattina. Le avrebbe spiegato che andava bene anche come la loro relazione era una volta, prima che Mia scoprisse tutto. Che non dovevano per forza vivere assieme. Già che c’era le avrebbe detto che, tra le altre cose, erano mesi che si comportava da stronza con lui, e non ogni tanto, ma spesso.
Avrebbe scritto una lettera a Mia. Non in un disperato tentativo di riprendersela; ci aveva già provato e lei era stata chiara. Le avrebbe scritto per scusarsi: non l’aveva ancora fatto. Chissà se era tornata da Santo Domingo. Chissà se stava con qualcuno.
Quel ragazzo che aveva incrociato la sera in cui si erano rivisti sul lago di Garda (l’ultima, perché lei aveva incaricato un’amica a inscatolare tutte le sue cose nel Nido) era certo tenesse molto a lei. L’aveva capito da come la guardava. Lui non l’aveva mai guardata così. E non aveva nemmeno mai guardato Isabelle così.
La sua vita, quello che ne aveva fatto, era tutta un enorme sbaglio, occupata dal suo ego ingombrante. E la verità era talmente lampante ai suoi occhi, che adesso che ne aveva preso coscienza non poteva più ignorarla, non poteva più tornare indietro. Proprio come quelle bottiglie non sarebbero più potuto tornare integre.
L’elefante, ora alto solo una ventina di centimetri, si affannava a caricare come un ariete una bottiglia di un bianco di Chablis, l’ultima rimasta in piedi insieme a una di Sancerre.
Alessio gli sorrise.
Ringraziamenti
Come ogni cosa non scontata, questo breve racconto nasce da una battuta durante una festa: “Parliamo di lavoro prima del settimo bicchiere, sennò chissà cosa organizziamo: ballerine brasiliane, elefanti in cantina…”
Mai parlare di lavoro durante le feste.
E così “l’elefante in cantina” ha iniziato a stuzzicarmi. La sua immagine era decisamente stravagante: l’ho trovato un bel titolo per un racconto.
Forse è una storia diversa da quella che vi aspettavate. Tuttavia, ho dovuto necessariamente fare quello che faccio sempre quando scrivo: ho seguito la storia e i personaggi.
Ha bussato alla mia mente Alessio, forse il più improbabile tra i protagonisti de Il nido delle cicale a cui avrei dato un seguito. Invece, eccolo qui.
Perdonatemi gli errori di battitura, i refusi e le ripetizioni: non c’è la mano (e l’occhio) di un editor a rendere davvero perfetto questo testo e di sicuro qualcosa è sfuggito.
Ringrazio Angelo Peretti per la scelta dei vini: te l’avevo detto che non avrebbero fatto una bella fine.
Ringrazio Ilenia Bazzacco per i consigli sul menù della cena di Isabelle e Alessio: mi è già venuta fame. Come sempre con le tue ricette, del resto.
Grazie a Maddalena Peruzzi per l’attenzione, la gentilezza e la sua profonda conoscenza del mondo del vino, i suggerimenti e la straordinaria opportunità che mi ha dato presentando Il nido delle cicale in Cantina Santi. Se leggerai il libro, capirai il senso di questo racconto, che è uno spin-off.
Grazie a te, che eri presente all’evento e che sei arrivato fin qui.
Anna Martellato
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