Suffragette. Il Capitale Umana – Intervista a Chiara Saraceno, sociologa

(17/02/2016 – App al Cinema)

Anna Martellato - Intervista a Chiara Saraceno, sociologa

Suffragette, maternità, lavoro, uteri in affitto e stepchild adoption: dialogo con Chiara Saraceno sulla questione femminile.

Chiara Saraceno, i cui studi sulla famiglia e sulla questione femminile l’hanno resa una delle sociologhe italiane di maggior fama, analizza i temi più delicati e difficili dei nostri giorni. E in un Paese in cui dove il capitale umano femminile è (ancora) escluso più nei fatti che nelle parole a causa di una classe imprenditoriale “molto miope e un po’ ignorante”, “terrorizzata dai nove mesi”. Uno spauracchio, che però “penalizza anche l’economia del Paese”. Sebbene tante donne spiccano sempre di più in politica come in società, dal Cern alla stazione spaziale, sono scomparse dal radar delle pari opportunità le donne “normali”. Quelle che fanno fatica.

Finiti i tempi dei reggiseni bruciati in piazza, cos’è oggi l’emancipazione?

Sul termine “emancipazione” all’epoca del femminismo anni ’70, io appartengo a quella generazione, c’è stato un grande dibattito: noi preferivamo parlare di “liberazione”. Non dobbiamo diventare come gli uomini, ma dobbiamo essere riconosciute per quello che siamo, per quello che vogliamo essere e vogliamo diventare. È l’affermazione di sé come soggetti a pieno titolo, senza il modello maschile come modello di riferimento, che non ha previsto le donne e che in qualche modo si è formato sulla base della loro esclusione.

Eppure persiste ancora. Avere una famiglia, o essere in procinto di formarne una “conta” negativamente (se si parla di lavoro), per una donna.

È il modello maschile ad essere sbagliato. Bisognerebbe cominciare a pensare che fare figli, prestare cura, fa parte della normalità. Certo, le donne possono rimanere incinte, mentre gli uomini no. Ma non dovrebbe essere considerato un handicap, al contrario. Nella nostra società da una lato ci si lamenta che vengono alla luce pochi figli, dall’altro poi si puniscono coloro che li fanno, le donne.

Questa esclusione ci penalizza come Paese?

Non a caso l’Italia non è così competitiva sul piano economico. I nostri imprenditori, i responsabili del personale, per il terrore di quei nove mesi di una possibile gravidanza preferiscono escludere le donne dal proprio orizzonte, escluderle dal capitale umano disponibile. Dal punto di vista economico è folle. Non a caso oggi nei paesi più sviluppati e nelle aziende più furbe hanno scoperto che investire nelle donne conviene. È un paradosso: le donne italiane sono più istruite, hanno voti migliori, ma non sono considerate. È esempio di una classe imprenditoriale molto miope e un po’ ignorante che non investe neanche sui maschi istruiti.

Eppure abbiamo tante donne che ricoprono le più alte cariche che danno l’esempio.

Avere così tante donne in politica è importane perché sdogana un’idea che solo gli uomini possano farlo. Ma mi chiedo a cosa servano, se non si pongono un problema al mondo rispetto alle altre donne “normali”. Questa è una delle epoche, negli ultimi trent’anni, in cui la questione della parità e delle pari opportunità è meno messa a fuoco e in cui alcune politiche sono sparite senza colpo ferire: si tagliano i servizi che incidono di più nella carne viva delle donne e questo non provoca nessuna ribellione. L’ho detto anche in occasione dell’iniziativa che il 25 novembre scorso la Presidente della Camera Laura Boldrini ha meritoriamente dedicato al lavoro delle donne. Tutte lì a parlare di questi bei lavori qualificati, creativi, che si possono fare anche da casa, le start up… Come se tutte potessero avere accesso a queste condizioni, come se non fosse difficilissimo per la maggior parte delle lavoratrici ottenere un minimo di flessibilità amichevole e come se non ci fosse il dramma dei NEET (giovani che non lavorano né studiano, ndr), che in Italia sono nella stragrande maggioranza donne. Queste donne, quelle che fanno fatica, quelle che non trovano lavoro o lo perdono appena fanno un figlio sono sparite dall’orizzonte, dal radar.

Cosa ne pensa delle quote rosa?

Già il fatto di chiamarla quota rosa è sbagliato. Io la chiamo quota blu. Se la chiamo quota rosa, do per scontato che gli uomini, poverini, in base alla loro grande generosità devono lasciarmi un pezzetto di qualcosa che sarebbe loro diritto divino avere. Invece è una pura questione di monopolio, e, come in qualsiasi mercato, bisogna fare una lotta antimonopolistica. La quota rosa è quindi uno strumento temporaneo per ridurre la quota monopolistica blu.

Lei si è rifiutata di firmare l’appello delle femministe di Senonoraquando-libere, che dice “no” al ricorso alla gestazione per altri. Perché?

Ho trovato sbagliatissimo porre la questione della gestazione per altri in stretta e diretta connessione con la questione dell’approvazione della legge sulle unioni civili per le coppie omosessuali e in un contesto in cui chi si oppone alla adozione del figlio del partner lo argomenta proprio agitando lo spauracchio del ricorso alla gestazione per altri. In questo modo si è avvallata un’equiparazione impropria, che invece avrebbe dovuto essere messa in discussione, tanto più che la maggioranza di chi ricorre alla gestazione per altri fa parte di una coppia dove i partner sono di sesso diverso. Per non parlare del fatto che le coppie lesbiche non ricorrono alla gestazione per altri.
Su quest’ultima, individualmente ho delle resistenze. Ma prima di permettermi di dirmi contraria in assoluto e di proibirla ad altri ci andrei un po’ cauta. Certo che sono contraria allo sfruttamento, ma può esserci qualcuno che lo fa per generosità, solidarietà. Se le condizioni sono di effettiva libertà: è questo che devo controllare.
Creando un corto circuito tra ricorso alla gestazione per altri e possibilità di adottare il figlio del partner e proibendo questa per evitare quella, si cancella il diritto di questi bambini ad avere due genitori. Li si condannano a essere orfani di un genitore per legge, quando in realtà quel genitore ci sarebbe. Questo non va contro la Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia?

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