Il Corpo

La percezione del cambiamento ha avuto un suo momento.

Era notte e mi sono svegliata all’improvviso, il battito accelerato. Nella stanza ancora buio.

Non l’ho sentita come un’esplosione di consapevolezza, piuttosto come un’implosione. Una metamorfosi.

Il mondo attorno a me stava implodendo, la quotidianità finora vissuta stava precipitando: le nostre abitudini più banali non sarebbero più state abitudini. La normalità stava assumendo una forma diversa.

Il virus ci ha tolto il contatto, l’abbraccio, la stretta di mano.

“Cos’hai?”, mi chiede Stefano, svegliato dalla mia inquietudine. La sua voce ha la morbidezza della notte interrotta, ed è qualcosa di dolce.

“Ho paura del Coronavirus. E se ce l’ho?”

“Ma va’… Dai, dormi”, taglia corto lui.

C’è chi evoca “i tempi di guerra”. Un paragone limitato.

Quando fischiavano le bombe a qualcuno ti ci potevi aggrappare, c’era il calore del corpo che dava sostegno e conforto. Questo invece è un nemico invisibile. Mi rigiro nel letto e mi raggomitolo su me stessa. Mi tengo stretta al mio corpo, finché è ancora mio.

 

È paradossale come in pochissimo tempo possano cambiare le cose.

 

Inaspettatamente ci rendiamo conto di quanto ci manca la vicinanza del corpo.

Il corpo degli altri: quello sconosciuto che sfioriamo per caso, oppure quello amico che salutiamo, abbracciamo e baciamo sulle guance sorridendo. Quello elettrizzato che ci si accalca ai concerti, o quello straniero in una via del centro storico, troppo stretta e troppo affollata di turisti.

Credo andrò a un concerto quando tutto finirà, non importa quale, uno qualsiasi, ho voglia di respirare il corpo degli altri, sentirmi umana, viva, non pericolosa, non in pericolo.

 

Il corpo: è lì che tutto inizia, ed è lì che e tutto si conclude. Motore di ogni cosa. Potente e fragile insieme.

 

Il mio corpo sta reagendo in maniera del tutto imprevista alla quarantena.

Sta accadendo qualcosa. Non capisco cos’è, ma ne percepisco la novità. Più il mondo implode, più il mio corpo sembra imporsi, diventando priorità.

Passavo le giornate a incastrare gli appuntamenti tra un cliente e l’altro, lasciando per ultimo quello che conta: la mia famiglia, i miei affetti, la mia casa, le mie passioni. E comunque il tempo era sempre insufficiente.

Il blocco forzato per contenere il contagio del COVID-19 ha ribaltato l’equazione.

Lavoro instancabilmente. Pulisco, riordino, do un senso. Mescolo, impasto, inforno. Ho tempo per la mia famiglia e chiedere a un amico come stai? non è più solo una forma di cortesia.

Mi piace lavorare all’aria aperta, in giardino: volevo farlo da sempre, ma non ne ho mai avuto il tempo.

Costa una certa fatica fisica. Ho sistemato il selciato, sradicato con certosina costanza ogni erbaccia, ripulito le aiuole, rinvasato le piante, piantato delle piantine nel piccolo orto dietro casa, che prima ho vangato e ripulito, sgranando con ostinazione le zolle più resistenti con le mani.

Il pallore che camuffavo con il trucco è scomparso, al suo posto un colore roseo, turgido.

La fatica ha risvegliato il mio corpo. Ho più fame. Me ne accorgo dai brontolii disperati del mio stomaco fuori orario: era da più di vent’anni che non li sentivo così insistenti.

Mi alleno, studio il movimento che crea ed esprime. Percepisco l’evoluzione del mio corpo. Si sta riappropriando di uno spazio tutto suo, a lungo negato.

 

Alla fine del giorno arriva il silenzio.

Sono le 21 e tutto dovrebbe ancora essere rumore, invece c’è silenzio.

Non quiete o tranquillità: silenzio.

“Ti ricordi l’estate scorsa, quando ci siamo alzati alle 4 del mattino per andare all’aeroporto? C’era questo silenzio qui”, nota Stefano.

Ha ragione. Il mondo dovrebbe essere ancora brulicante di vita, a quest’ora. È surreale.

Una luna appannata trafigge i rami del mandorlo. È fiorito in anticipo almeno di venti giorni, quest’anno. Ci sono già piccole foglie verdi che screziano i rami, mentre i petali dei fiori sono quasi tutti caduti sul prato, sembrano chicchi di riso fuori dalle chiese.

Penso al tempo concesso, che questa situazione assurda mi permette di vivere.

Noi che non avevamo mai tempo, distratti e bulimici di frenesia, noi avidi e mai sazi di benessere che trascorrevamo le nostre giornate intoccabili, vagando senza méta e comprando per noia, noi che alla fermata dell’autobus stavamo gli uni accanto agli altri isolati virtualmente, persi nei cellulari, senza mai incontrarci negli occhi, noi che ci toccavamo senza mai farlo veramente ora siamo obbligati a fermarci e a respirare e a prendere coscienza di noi e del nostro spazio. Del nostro io, del nostro corpo.

Dobbiamo convivere con questa ambiguità: a modo suo, il virus sta rimettendo a posto alcune cose.

Non siamo più un noi distratto e senz’anima.

Siamo io e io, spinti a guardarci dentro, a scavare, a interrogarci, a conoscerci. E a riscoprirci.

Non ci sono più alibi.

Mi fermo e respiro.

L’aria è più pulita. Le stelle in cielo sembrano più brillanti.

Il rumore della frenesia che copre ogni cosa e scandisce ogni momento non c’è più.

È una riconnessione, una nuova prospettiva, un cambio di ritmo.

Qualcuno dice che il virus sparirà con l’estate. Oggi è il primo giorno di primavera.

 

Anna Martellato

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